Testo finalista al Premio Riccione e al Premio Scenario 2015, dopo varie traduzioni e allestimenti all’estero
– ultimo il debutto al Park Theater di Londra nel 2023 – torna in scena in lingua italiana Scusate se non siamo morti in mare, qui diretto dallo stesso autore, che torna ad affrontare un tema di grande attualità con lo stile che lo contraddistingue, sempre in bilico fra la commedia e la tragedia.
In un futuro non troppo lontano, in seguito a varie crisi economiche e ambientali, l’Europa è diventata un continente di emigranti. I cittadini europei, alla ricerca di un futuro migliore, cercano di raggiungere paesi più ricchi, ma devono farlo clandestinamente perché nel frattempo tutte le frontiere sono state chiuse.
Sulla banchina di un porto, dopo aver preso accordi con un marinaio/trafficante, due uomini e una donna salgono di nascosto su un container, con la promessa di raggiungere ognuno una destinazione diversa.
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Note di regia
Mettere in scena un proprio testo dieci anni dopo averlo scritto, in un certo senso, è un po’ come lavorare sull’opera di un altro autore. Uno sconosciuto con cui si condivide qualche tratto biografico e qualche ricordo.
Il desiderio di farlo mi è venuto perché in questi anni ho visto molti spettacoli che hanno trattato il tema dell’immigrazione e hanno raccontato le stragi nel Mediterraneo, alcuni molto efficaci e toccanti – ma tutti basati su un piano di realtà nel quale noi italiani/europei/occidentali siamo stretti nella dicotomia “creatori di confini”/“- soccorritori”.
Scusate se non siamo morti in mare parte da un assunto opposto, non è realistico, non ha un approccio politico “diretto” e non tocca corde di emotività legate al presente. A tutti gli effetti direi che parla d’altro, di un’altra emigrazione, di altre dinamiche e di un altro tema, che credo abbia più a che fare con il rapporto fra il tempo che scorre e l’immagine che riusciamo ad avere di noi stessi, come animali relazionali, all’interno di questo continuo mutamento naturale.
Come regista ho scelto quindi di spingere questo allontanamento dalla realtà ancora più in là, verso il surreale e l’archetipico, sottolineando con la scenografia rotante lo scorrere del tempo e suddividendo l’azione scenica in inquadrature cinematografiche oblique, in cui lo spettatore dovrebbe essere portato a sentirsi sbilanciato, non solo visivamente ma anche rispetto al giudizio sociale e morale di ciò che vede.
Credo perciò che la sfida di riuscire a equilibrare una recitazione realistica all’interno di un impianto scenico simbolico, che accomuna questo spettacolo agli ultimi lavori che ho portato in scena, assuma in quest’occasione anche un senso meta-storico.
Emanuele Aldrovandi



